Ho appena finito un libro. Bel modo di 'riqualificare' una domenica mattina cominciata troppo tardi. Il titolo è L'anno del pensiero magico e l'autrice è una magrissima giornalista e scrittrice americana: Joan Didion.
Mi era stato lungamente sconsigliato di leggere queste pagine senza pensarci prima, per la ragione che raccontano l'eleborazione, disarmante e sincera, di un lutto. Anche io ho avuto un lutto. Si trattava, ovviamente, di un amorevole tentativo di preservarmi da quello che la Didion definisce il vortice: una sorta di sottocategoria della madeleine proustiana, in virtù della quale un dettaglio, apperentemente irrelato con il tuo lutto, innesca una serie di associazioni mentali che ti risbattono in un attimo nella percezione inesorabile dell'assenza.
Tuttavia, più di ogni altra cosa, io credo che negli eventi ci sia una sorta di necessità, una predestinazione. Credo nei segnali. Per questa ragione, non è tanto per l'accorato consiglio che mi sia astenuto così a lungo dal leggere questo libro, quanto più perché aspettavo di sentire che era il momento giusto per farlo, il kairos, come avrebbero detto i Greci. Nel mio immaginario, la percezione del kairos non è necessariamente razionale e distanziata: semplicemente ti accorgi che qualcosa è successo, nella più totale aderenza di te stesso con te stesso, e che quel qualcosa non poteva accadere altrove, altrimenti e in un altro tempo, soprattutto.
Un mese fa, mentre cercavo un libro che mi tenesse compagnia durante un viaggio aereo, il volumetto della Didion è saltato fuori insieme con un paio di altri romanzi. Dapprima ho pensato che fosse 'giunta la sua ora', ma poi, considerate le 12 interminabili ore di volo, e, mai come in questo caso, schiavo dei segni, ho preferito un titolo che, quanto a scaramanzia, mi pareva davvero imbattibile: Non buttiamoci giù, di Nick Hornby. "Il suo turno è vicino, ma non è ancora arrivato", mi sono quindi detto, e ho lasciato L'anno del pensiero magico sulla scrivania.
Al mio ritorno a casa, mentre mi accorgevo che il libello era rimasto perfettamente ortogonale al bordo dello scrittoio vuoto, quasi fosse davvero una specie di libro di magia che aspetta solo qualcuno pronto ad aprirlo e intonare l'incantesimo, mi sono reso conto anche di un'altra cosa: contrariamente alle aspettative, Non buttiamoci giù aveva invece giaciuto, muto, sul fondo del mio bagaglio a mano per tutte le 24 ore di volo totali. Non buttiamoci giù non era stato il mio 'prossimo libro'.
Sto cercando di ricordarmi quante ore siano trascorse tra l'acquisizione di questa piccola consapevolezza e l'esatto momento in cui ho iniziato a leggere L'anno del pensiero magico, ma non mi riesce. Sembra una specie di sortilegio finalizzato a confondere la mia percezione del passato recente. O è come se il confine tra ciò che ho vissuto e ciò che ho letto sia diventato una specie di onda oceanica vista dall'alto, lunghissima, di cui non capisco la fine, l'inizio, l'estensione. Come se avesse sempre fatto parte di me. E mi rendo conto, in effetti, che in questi giorni di lettura appassionata, e, per la prima volta nella mia vita, priva di ansia, mi è risuonato in testa, come una radiazione di fondo, un epitaffio che avevo scritto per il mio lutto, ma avevo scartato con dispiacere: Come un'onda te ne vai, per tornare e ritornare sempre. Sono contento di non averlo scelto, ora. Ne sono felice perché quell'onda addolorata era diversa da quella che ho immaginato oggi, aveva in sé qualcosa di ossessivo, quasi dovesse certificare in eterno che non avrei dimenticato mai nulla: perché sarebbe stato un torto, un tradimento imperdonabile. Imbalsamare ogni cosa, ripeterla all'infinito. Non vivere.
Curiosamente (o forse no), del mio avvicinamento al libro, ricordo solo il momento in cui sono andato a cercare, come faccio sempre quando ne ho uno tra le mani, la dedica: Questo libro è per John e Quintana. Mi vengono i brividi a scriverla io, tanto è scabra, concreta, reale.
Dopo un lutto, in genere, si sbaglia tutto. Nella preoccupazione di 'onorare la memoria' di qualcuno, si pensa solo a commiserarsi, a ripercorrere più o meno meccanicamente ogni passo, ogni momento condiviso; le frasi dette, non dette; i sacrifici fatti o, peggio, richiesti. Ma conservare ogni oggetto, o semplicemente ogni ricordo, non ha nulla a che fare con le persone che se ne vanno e forse serve solo a trasformarle in una funzione di noi stessi. Da non molto tempo ho realizzato che il miglior modo per onorare chi non c'è è lasciare che la sua vita, anche se è finita, continui ad essere la sua, come lo è sempre stata. Questo libro è per John e Quintana. Mettere una distanza e lasciare che sia l'amore, non l'ossessione, a colmarla. E vivere.
Sulla copertina del libro c'è un grosso girasole secco. Pochi minuti fa ho capito davvero quanto appropriata sia questa immagine: forse è un girasole sopravvissuto. E' secco, ma non meno bello o luminoso. E' un girasole che è andato avanti.
Grazie dunque, carissima Joan Didion, oggi era il nostro kairos.