mercoledì 7 aprile 2010

Acqua sì cura

Una volta ho letto sulla settimana enigmistica che "nelle disgrazie dei nostri amici c'è sempre qualcosa che non ci dispiace". Me ne ricordo bene perché ho pensato che, in fin dei conti, questa frase era vera: del resto da tanti anni ormai una vocina interiore mi avverte di ogni piega di meschinità nascosta nel mondo che mi circonda. Si chiama cinismo, e la odio. La odio perché uccide ogni cosa, visto che lei stessa è il cadavere dell'entusiasmo e vuole che tutto sia grigio e appassito come lei, oppure vuole che tutto sia perfetto, asettico, senza vita allo stesso modo. E' difficile conviverci, tenerla a bada, a volte sembra una eterna recita, uno sforzo che ti fa arrivare stremato alla sera senza che tu abbia mosso la più piccola fibra di un muscolo; è un disco rotto che non puoi fermare perché sta sul giradischi del vicino.

Ma ci sono volte, ci sono volte che io ti leggo, ti vedo, ti sento e provo una gioia tale che lo stomaco mi si contrae, sono certo che arrossisca di rabbia e commozione, come se volesse prendermi a pugni e dirmi "ridi, sogna, vivi!". In quei momenti la vita spazza via ogni cosa, perché mi accorgo di quanto sia potente il sentimento che provo quando vedo o solo immagino la tua gioia. E' una gioia alla seconda, una iniezione di sangue caldo, sano, vitaminico.

Se le nostre digrazie ci derubano e in quelle altrui c'è qualcosa che ci lascia impassibili, è nelle soddisfazioni di chi amiamo che c'è il nostro vero risarcimento. Tu sei il mio risarcimento.

La felicità è nata gemella. (Lord Byron)

sabato 3 aprile 2010

Iris e quadrifogli

Nella mia casa oggi ci sono degli Iris. Li ho scovati portando in giro i cani due mattine fa, nella campagna.
Rodrigo si era spinto fino ai confini del parco ‘rincorrendo’ il bastone impigliato in diagonale nella sua pettorina e sono stato costretto a correre da lui per porre fine ad un gioco dai pericolosi risvolti suicidiari. In quel momento mi sono accorto della presenza degli iris. Si trovavano dietro un cespuglio abbastanza alto, suddivisi in tre gruppi, tre eleganti macchie bianche, appena sotto l’inizio della discesa. Ma l’iris è una pianta spontanea? È una pianta robusta? Di sicuro è una pianta bellissima, per i petali sensuali, complessi e precisi, per lo stelo gonfio d’acqua e per la sua capacità di far sbocciare un fiore dai resti di un altro appassito.
Mia nonna si chiama Iris e anche lei mi piace molto.


Ho trascorso gran parte dell’infanzia setacciando il parco sotto casa alla ricerca di un quadrifoglio. Ho identificato centinaia di margherite, nontiscordardime a mazzi, alcune giunchiglie, ma non ho mai trovato un quadrifoglio. Alla fine sono persino arrivato a mentire a me stesso: prendevo un trifoglio e dividevo in due uno dei suoi tre petali, fingendo che andasse bene. Ma non era lo stesso. È che mi è sempre piaciuta l’idea che qualcosa di speciale si nascondesse nella normalità, qualcosa di tanto straordinario da passare inosservato, da richiedere uno sforzo in più. È per questo che imbattermi negli iris mi ha colpito così tanto: decine e decine di volte io e i miei cani abbiamo passeggiato svagati su quel prato, senza accorgerci che gli iris, anche loro distrattamente, stavano ad aspettarci.
Una cosa che invece, da piccolo, ho sempre faticato a comprendere è perché per regalare dei fiori occorresse necessariamente reciderli. Quando con mio padre uscivamo la domenica mattina, in primavera, e si decideva di portare un mazzolino di fiori a mia madre come ringraziamento per le ore spese a cucinare, vivevo sempre con un certo disgusto ecologista il pluri-floricidio; pertanto, grazie ad una improvvisata operazione da ‘giardinaggio senza frontiere’ gli iris che ora sono qui a casa sono ancora attaccati al loro bulbo, che ho scoperto essere particolarmente grande, turgido e vitale. Anche in questo mi ricordano mia nonna, in effetti.
Mia nonna. Iris. I suoi commossi occhi nocciola (mi raccomando, ci tiene alla nuance), il naso intagliato, le orecchie lunghe ed eleganti, il collo bianco e i capelli nerissimi. Le cose che mi ha insegnato sono piccole tessere, imperfetti quadrati di colore attaccati sul muro del passato che, se guardati indietreggiando, compongono un mosaico abbagliante.
Oggi, a Roma, distante nel tempo e nello spazio, con questi iris ‘bulbo-muniti’ come testimoni, ho deciso di fermarle queste piccole lezioni di sensibilità, perché voglio coltivare la mia memoria buona, quella che fortifica e non logora. Ma prima, devo precisare che mia nonna si chiama Iris alle anagrafe, ma M-iris davanti a Dio: la M è un regalo della mia bisnonna, che temeva che Iris, il nome preferito di suo marito, fosse appartenuto ad un vecchio amore perduto. Romantico, no?

Ma non voglio indugiare ulteriormente e procedo con l'elenco, disordinato, dei memoranda. Grazie a Miris so:
-sbucciare l’arancia a forma di fiore
-piegare il tovagliolo in modo da formare un ventaglio da inserire nel bicchiere per le grandi occasioni
-utilizzare il suddetto tovagliolo per pulirmi la bocca, mai le mani: “se uno sa mangiare, le mani non si sporcano”
-badare a non fare macchie sulla tovaglia “ché poi non va via”
-cucire i bottoni “perché quando fai il militare ti serve”
-disegnare realisticamente piante e cavalli
-avere rispetto per le matite, facendo attenzione a non farle cadere “ché la graffite si spezza” e pensare sempre prima di disegnare qualcosa
-la frase della Boheme “mi chiamano Mimi, ma il mio nome è Lucia”
-fare i cappellini-origami di carta “che indossano i muratori” (mai visto nemmeno uno indossarli)
-piegare le buste a triangolo
-sdraiarmi a letto avendo cura di scostare il copriletto “che è più difficile da lavare”
-avere rispetto per gli oggetti e soprattutto, tenere in ordine i cassetti, prima che ogni altra cosa.

Dietro ognuno di questi piccoli doni quotidiani si nasconde un seme di quadrifoglio, in un prato che pareva fatto solo di dicondra. La lista è incompleta e nonna mi perdonerà, ma confido che, insistendo, molti altri semi rimarranno nel mio setaccio. Vi terrò informati.